Riprendendo il bandolo della matassa di un paio di giorni fa c’è da pensare che forse si stava meglio prima del Sessantotto, ostentato e più volte decantato dai radicalchic di stampo rutelliano, periodo storico che ha eletto i figli dei fiori dell’epoca trasformandoli poco alla volta in impiegati del catasto, reucci del burocratismo, politici-nani e lacchè del potere.
Parlo anche dei nostri genitori e dei loro fratelli, nessuno si senta escluso, quindici-ventenni, fors’anche venticinquenni dell’epoca che idealizzavano la pace nel mondo e praticavano l’amore libero, ostentavano le canne e mandavano a “cagher” chiunque, a partire da chi l’aveva messi al mondo.
Ieri svalvolati che fantasticavano l’isola di Wight, a seguire diventati genitori che poi avrebbero costretto una generazione intera a rispettare regole e orari, inculcando quel rispetto che avevano offuscato con i loro comportamenti perché faceva tanto “in” dire “sono un hippy”. Poi loro, che contestavano tanto, si sono ritrovati a fare i servi della gleba per accaparrarsi un posto al sole e a innescare il capitolo-raccomandazioni, che verrebbe voglia di cambiare perfino quell’“Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” con un più modesto e banale, ma comunque efficace “l’Italia è il Paese dei calci nel sedere e delle spinte”.
Il Paese è cambiato per colpa di quel maledetto ’68, che diede il “la” agli anni di piombo e poi, a seguire, ad altri periodi da “bambole non c’è una lira”, da far west all’italiana, da nientismo assoluto e idee castrate sul nascere. La politica di oggi è figlia della disgrazia sessantottina, idem con patate le crisi economico-sociali degli ultimi anni, innescate da chi – “protagonista de ‘noantri in quegli anni – ha allevato ai propri figli raccontandogli favole, come quella del periodo storico più sfigato del dopoguerra trasformato nell’Eden della cultura, dello sviluppo, della libertà. Constatazione politica? Macché. Più semplicemente, constatazione di fatto.