
Nell’Auditorium della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata ancora si respira un’atmosfera concentrata sul dibattito che questa mattina ha visto come protagonista l’onorevole Gianfranco Fini, presidente della Camera dei deputati.
Il tema è quello della democrazia, della sua solidità e vitalità, la questione della politica come “un’arte che tiene insieme ragione e passione”, una scienza della comunità.
Il problema posto subito al centro del confronto è il calo di fiducia e di partecipazione alla politica; negli ultimi anni la partecipazione elettorale e le rilevazioni demoscopiche mostrano come gli italiani non solo si recano meno alle urne, rischiando di arrivare sotto il 50% di affluenza come in Sicilia, ma sembrano mostrare un crescente disinteresse soprattutto nei suoi strumenti.
Ma quali sono le cause di questo default?
In primis la distanza crescente tra Palazzo e società, ma anche la perdita non affiancata da un’opportuna integrazione, di quote di sovranità degli stati nazionali a fronte dell’ampliarsi dell’orizzonte europeo e quindi lo spostamento di decisioni in una sfera politica più vasta, l’autoreferenzialità dei partiti e ovviamente anche la crisi economica che di questi tempi certamente non aiuta.
“Bisogna chiedersi come sia possibile risvegliare un impegno politico li dove esiste un notevole disincanto e non si crede più alla grande narrazione” , afferma il presidente della Camera, Gianfranco Fini, in una fase storica forse post-ideologica in cui non sussiste più quella politica che si fa portavoce di una Weltanschauung, una visione del mondo, una visione della vita.
I risultati di una scarsa partecipazione e di un interesse attivo nella vita pubblica vengono descritti citando filosofi del calibro di Tocqueville, di cui Fini rilegge qualche riga: “Se cerco di immaginare il dispotismo moderno vedo una folla smisurata di esseri simili e eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima. Ognuno di essi, ritiratosi in disparte, è come straniero a tutti gli altri, i suoi figli e i suoi pochi amici costituiscono per lui tutta l’umanità; il resto dei cittadini è lì, accanto a lui, ma non lo vede; vive per sé solo e in sé, e se esiste ancora la famiglia, già non vi è più la patria”.
E quindi come ripensare la democrazia? Innanzitutto come un sentire comune. Una democrazia vicina alle parole di J. Dewey : “Come memoria del passato, coscienza del presente, ideale del futuro. La democrazia, in una parola, è una concezione sociale, vale a dire etica, e sul suo significato etico si basa in quanto forma di governo”; quindi una democrazia improntata sulla costruzione di una sfera pubblica dove spaziano le ragioni e il dialogo su ciò che è meglio fare o non fare, un’ecologia della politica che garantisca la piena partecipazione ad essa rifuggendo ogni tentazione di estetizzazione di essa, ossia ogni forma di espressione acritica e distratta.