
La revisione dell’articolo 18 era un obiettivo della ministra Elsa Fornero, sostenuta senza tentennamenti dal presidente del Consiglio, per mostrare che i sindacati italiani possono essere domati. Una strategia di immagine per veicolare il messaggio di un cambiamento in atto.
Dal punto di vista pragmatico la riforma si pone l’intento di favorire i contratti a tempo indeterminato, ma nella sostanza li svuota di significato: il datore di lavoro ha infatti più facilità a licenziare. Il rapporto, quindi, è talmente flessibile che può sfociare per l’ennesima volta nella precarietà, cioè la “flessibilità cattiva” per usare un termine cara a Fornero. Inoltre, l’intervento sui contratti a tempo determinato non appare così vigoroso da incoraggiare assunzioni di massa. Gli ammortizzatori sociali, con l’introduzione dell’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) al posto della mobilità, finiscono poi per colpire i lavoratori più deboli, come gli over 50. Il quadro finale, insomma, consegna una riforma che sembra scritta da tecnici-teorici lontani dai fenomeni concreti che ruotano intorno all’occupazione. Ma ben consapevoli della funzione simbolica dei provvedimenti.